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Femminili professionali: una scelta di affermazione di sé.

Lucia Bencina

Avvocata o avvocato? Direttrice o Direttore? Ingegnera o ingegnere?

Il tema dei femminili professionali, solleva parecchio rumore e diversi contradditori.

Tra chi allude ad uno snaturamento della lingua italiana, a chi ne fa una questione di “suono”, da chi annuncia al decadimento del linguaggio a chi ne fa una questione ideologica, sono tante e contrastanti le idee ed i punti di vista al riguardo. Ma quali sono le ragioni e le conseguenze di questa scelta?


Escludendo le questioni di pura natura correttezza linguistica, che possono essere facilmente risolte con una buona dose di approccio socratico ("so di non sapere") e con una semplice ricerca su dizionari aggiornati (o anche semplicemente googlando), cosi come la soggettività estetica e fonica di un termine -che perlopiù dipende da abitudine, rispettivamente approccio al cambiamento, e frequenza di utilizzo di un termine-, quello che intendo portare sul tavolo, è la riflessione sulla scelta, da parte delle donne, di usare i femminili professionali per descrivere il loro ruolo, in particolare per quelli di rilievo, fino a poco tempo fa usati quasi esclusivamente al maschile, e i risvolti che tale scelta può comportare.


Perché tante donne, anche in posizioni di "potere", preferiscono usare il maschile per descrivere sé stesse? E quali conseguenze ha questa scelta sul modo in cui ci percepiamo e siamo percepite dagli altri?

una donna che sorregge una tazza con le scritte Ceo, Boss, Founder, Entrepreneur
L'inglese in questo senso rende tutto più semplice, poiché la maggior parte dei sostantivi sono neutri e possono essere utilizzati per entrambi i generi

Il linguaggio come rappresentazione della realtà

Iniziamo questa riflessione da un assunto essenziale: il linguaggio è ciò che differenzia gli esseri umani dalle altre specie.

Il linguaggio è il veicolo attraverso il quale definiamo noi stesse, il mondo che ci circonda, il nostro modo di sentire, percepire, esplicitiamo i nostri pensieri, ed è indispensabile anche per affermare la nostra appartenenza ad un a “tribù” (geografica, culturale, sociale, ecc) e parallelamente identificare chi ne è estraneo.


Il linguaggio, dunque le parole che scegliamo, contribuiscono a definire il modo con cui vediamo, percepiamo e diamo senso alla realtà, ma altrettanto, il linguaggio fa qualcosa di molto potente: ci permette di contribuire a dare una nuova forma alla realtà operando sui nostri pensieri, inclusi quelli che riguardano noi stesse.

La teoria della relatività linguistica infatti dice che la realtà influisce sulle parole che usiamo: cambia la realtà cambiano le parole. Allo stesso modo le parole che usiamo ci permettono di vedere il mondo in maniera diversa: attraverso le parole io posso cambiare la percezione delle cose e delle persone.


La mia preparazione in Programmazione Neurolinguistica (PNL) mi ha infatti insegnato quanto le parole siano in grado di muovere le nostre emozioni, evocare significati, ricordi, quanto possano unire o allontanare.. e quanto il loro utilizzo consapevole possa determinare un risultato piuttosto che un altro.


Da questo punto di vista, con questa consapevolezza,-e come predetto, al netto della verifica di correttezza linguistica-, osservando diversi profili Linkedin e la "firma" di professioniste, sono giunta alla conclusione che la scelta di definirsi professionalmente al maschile o al femminile (ove disponibile il corrispettivo) affonda le radici in qualcosa che va oltre la mera lingua.


Per quale ragione infermiera sì e ingegnera no?

Se ci fermiamo a pensare , esistono numerosissime professioni per le quali l’uso del femminile è consolidato. Non rinunciamo infatti a definirci infermiere, maestre, segretarie, operaie, contadine e nessuno si stupisce o ha nulla da recriminare al riguardo.

Questo perché nel tempo, ci siamo abituate a queste declinazioni e le abbiamo normalizzate poiché sono ruoli in cui la presenza femminile è "normalizzata", ma anche accettata.


Non ci sogneremmo mai infatti, da donna, di dire: faccio l' infermiere, sono un maestro, sono un impiegato, lo troveremmo alquanto strano, e leggendolo penseremmo ad un errore linguistico.

Ma quando si tratta di professioni o ruoli di prestigio o potere, come fondatrice, imprenditrice, direttrice, in certi casi abbiamo resistenze, ci suonano talvolta “strani” o “forzati”. Diventano cacofonici, o addirittura "ridicoli".


Non è un caso.


Il nostro cervello, per natura, tende a rifiutare ciò che non gli è familiare, ciò che esce dagli schemi consolidati. Siamo esseri umani, amiamo la stabilità, il cambiamento necessita di un lavoro di revisione ed adattamento delle certezze, fatica, e ci sentiamo destabilizzate.

Ma non finisce qui. C'è qualcosa di più. Qualcosa di più profondo e radicato se taluni (e talune) si accendono sul tema come un cubetto di Diavolina.


La resistenza al femminile e il bullismo linguistico

Se va bene, chi si azzarda a usare termini declinati al femminile viene tacciata di “storpiatura della lingua” o invitata a occuparsi di cose “più importanti”, se "va male", diventa oggetto di scherno, anche piuttosto pesante, che talvolta sfocia in esternazioni sessiste e discriminatorie.

Questa forma di bullismo linguistico può infatti limitarsi ad un meccanismo di resistenza al cambiamento in sé, dall'altro voler difendere l’ordine sociale prestabilito.


Vera Gheno, sociolinguista, scrittrice, divulgatrice, che ha collaborato per 20 anni con L'Accademia della Crusca, nel suo libro Femminili singolari, ci offre una preziosa riflessione in merito. Gheno spiega che l’uso del femminile per i ruoli professionali è non solo corretto in italiano, ma anche necessario per rappresentare la realtà in modo equo.

Le sue argomentazioni si basano su principi linguistici che dimostrano come il linguaggio evolve e si adatta ai cambiamenti sociali, non solo, la lingua viene definita man mano dall’uso che ne fanno le persone, ed una lingua che non evolve é una lingua “morta”.

Ne consegue che la scelta di usare il maschile in contesti che riguardano le donne non è più una sola questione di correttezza grammaticale, ma di retaggio culturale.

Gheno infatti chiarisce: “Il linguaggio cambia in base all’uso che le persone ne fanno. Se la società si evolve, evolve anche la lingua. E non c’è nulla di innaturale in questo processo.”


Bastasse quindi prendere coscienza di ciò, il problema sarebbe risolto.

Ma se la rinuncia o il rifiuto dell'uso del femminile significasse invece rinnegare una realtà in cui la presenza della donna in determinati ruoli o funzioni “di rilievo” è ammissibile, accettata, e valorizzata (anche da noi donne)?


Come mi definisco?

Cosa si cela, dunque, nel pensiero di donne che definiscono il proprio ruolo professionale al maschile, anche quando il corrispettivo femminile non solo è corretto, ma pure ormai sdoganato, come nel caso di direttrice, imprenditrice o fondatrice?


Per quale ragione alcune professioniste continuano a preferire il maschile?


Uno spunto interessante mi è stato offerto da Chiara Blasi nel suo libro Generazione Z. Nell’ultimo capitolo, Blasi analizza questo fenomeno e suggerisce che alcune donne scelgono il maschile per evitare derisioni, incomprensioni, o spiegazioni a chi storce il naso davanti a un termine femminile ancora poco noto, ammesso, "normalizzato".


Spesso è un modo per evitare di essere percepite come “fissate” o etichettate come “femministe rompiscatole” facenti parte del “gruppo di opposizione” all'ordine predefinito, o di essere derise, umiliate.

Ma nella maggioranza dei casi, l’uso del sostantivo maschile conferisce a livello percettivo un'autorevolezza automatica, un effetto che, purtroppo, il femminile ancora non garantisce con la stessa immediatezza.. per quale ragione?


Il bias che perpetuiamo si rafforzano.. e ci governano

Bias: distorsioni che le persone attuano nelle valutazioni di fatti e avvenimenti. Tali distorsioni ci spingono a ricreare una propria visione soggettiva che non corrisponde fedelmente alla realtà. In sintesi, i bias cognitivi rappresentano il modo con cui il nostro cervello distorce di fatto la realtà. 

È qui che si nasconde un bias profondo e radicato: l’idea che, a parità di risultato, un uomo venga percepito come più autorevole. L’uomo è stabile, la donna è fragile. L’uomo è ambizioso, assertivo e fa carriera, la donna è gentile, meno combattiva e più predisposta a funzioni di cura..

Si tratta di quei gender bias, (bias di genere) che comprendono tutte quelle generalizzazioni, gli schemi di pensiero e i pregiudizi legati al genere di appartenenza; essendo pervasivi, possono impattare su tutti gli aspetti della vita quotidiana, inclusi quelli professionali.

Questi pregiudizi, e stereotipi, seppur latenti e non apertamente dichiarati, sono tramandati (senza nemmeno che vengano spiegati apertamente) di generazione in generazione e influenzano anche le nostre scelte linguistiche.


Sulla base di essi, una donna che studia, si impegna, si fa ..“il mazzo” -soprattutto in certi ambiti e facoltà in cui le donne devono letteralmente sgomitare per farsi considerare all’altezza- è comprensibile che voglia capitalizzare tale sforzo ed essere presa sul serio, e per questo allora, sceglie di definirsi al maschile sperando di accedere alla Serie A della professione, al pari con i colleghi uomini, piuttosto che nel campionato di Serie B, in cui pare giochino le professioniste donne.


Facciamo un breve test..


Architetta, Ingegnera, Avvocata.. cosa vi trasmettono?

Al di là dell’iniziale strano effetto dovuto alla scarsa familiarità, non sono forse termini che letti di primo acchito, trasmettono meno autorevolezza, "potenza"?

Sono i nostri bias inconsci all’opera..ne siamo piene.

Se però lasciamo che agiscano in automatico, facendoci trascinare da essi, usando ad esempio il maschile per descriverci nell'intento di dimostrare il nostro valore, non facciamo che alimentare tali bias, preservando lo stereotipo femminile=inferiore, sia dentro di noi che all’esterno.


“Si tratta solo di un nome, di un ruolo. La parità è quando a farlo un uomo o una donna non fa differenza”

Questa è un’altra delle obiezioni e delle idee che emergono e che ho incontrato riguardo a questo tema. La questione qui riguarda un altro aspetto ancora.



Come detto precedentemente, se per certe categorie professionali (come quelle citati in precedenza) in cui la presenza femminile è sdoganata, non abbiamo problemi ad adattare i sostantivi al genere della persona che li svolge, la questione non dovrebbe sussistere nemmeno per altri ruoli professionali. Corretto?

E invece.. non sempre.


Questo prova che la questione non riguarda infatti strettamente la lingua, bensì la cultura.


Perché allora non potrebbe valere lo stesso al contrario, perché non chiamare un sarto, “sarta”, perché non chiamare un cuoco, “cuoca”, o perchè una maestra non si fa chiamare “maestro”, in onore della parità, se non cambia nulla? E per quale ragione la polemica non si è accesa negli stessi termini quando alcuni uomini (pochissimi ancora) hanno iniziato a svolgere la professione ostetrica definendosi correttamente "ostetrico" da sempre e storicamente ad appannaggio femminile?


La parità non significa rendere tutti uguali, annullando le differenze. Significa attribuire egual valore alle differenze.


Sono una donna, e non voglio nascondermi dietro a parole che non mi rappresentano, per uniformarmi al solo genere contemplato, per dover essere accettata, per dover dimostrare il mio valore.


Questo è un tema che anche le aziende più attente e più evolute, che mirano a durare nel tempo, stanno affrontando attraverso le politiche di DE&I (Diversity, Equity & Inclusion). Tra le misure e le strategie contemplate da queste politiche, l’uso consapevole del linguaggio è fondamentale.

Un linguaggio che non generalizzi a beneficio di un solo stereotipo, che non ragioni secondo il binomio “normale” / diverso da “normale”, ma che riconosca e valorizzi le differenze, perché in fondo, ciascuna di noi è differente.

Non concepire la realtà come multi sfaccettata significa perpetuare un'idea di “normalità” che esclude e marginalizza chi non si conforma a determinati standard. Adottare un linguaggio consapevole, invece, contribuisce a creare ambienti più equi, dove ogni identità e ruolo viene riconosciuto e valorizzato. (E ormai lo sappiamo, il femminile, fa parte di questi gruppi.)


Affermarsi attraverso il linguaggio: una scelta consapevole (e coraggiosa)


donna leader che gioca una partita a scacchi

Tutto quanto ho riportato fino a qui è un’analisi nata dalle mie riflessioni rispetto alle mie conoscenze, competenze, esperienze dirette/indirette e letture sul tema.

Ma pure su quanto anche da questo passi il processo di Leadership personale, intesa come affermazione della propria esistenza, del proprio valore, della propria identità, senza sottostare a regole, stereotipi, bias e generalizzazioni che se non portate alla luce, non ci permettono pienamente di farlo.


Ciascuna di noi esercita la sua libertà anche nella scelta di come definirsi e come presentarsi al mondo, e di certo non esiste un giusto o sbagliato assoluto, nè tantomeno, lo voglio o posso definire io per tutte. Sarebbe un controsenso rispetto alla mia missione.

Ciò che con questa riflessione e questi spunti è mia intenzione fare, è contribuire a maturare la consapevolezza che ogni volta che ci definiamo attraverso la scelta di alcune parole piuttosto che altre, stiamo compiendo un atto di autoaffermazione e autodeterminazione personali.


Stiamo contribuendo a riconoscere il nostro diritto di esistere esattamente come siamo.


Perché é attraverso quelle scelte, che possono sembrare piccole o insignificanti che scegliamo chi siamo e come vogliamo che il mondo ci percepisca. Rinunciare a questa possibilità significa rinunciare a un pezzo della nostra identità.


Ciò che non viene nominato tende a essere meno visibile agli occhi delle persone. In questo senso chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio, ma il riconoscimento della loro esistenza. (Vera Gheno – Femminili Singolari)

Operare questa scelta, inoltre, amplia la posta in gioco.


Considerato come la lingua non sia mai statica, fissa, ma in continua evoluzione, e che più un termine viene utilizzato, più diventa consueto, la decisione di affermare la nostra femminilità attribuendola anche ai ruoli che siamo perfettamente in grado di ricoprire con determinazione, saggezza, successo, consente di sdoganare la presenza di donne in certe funzioni finora ad appannaggio maschile.

Alla luce di queste scoperte, letture e riflessioni, possiamo ancora dire che si tratta di “inutili fissazioni” o sostenere che un’effettiva parità non passi dal curarsi di queste “piccolezze” ?


Queste domande me le sono fatte anche io.. pensavo che la bravura, il duro lavoro, l’impegno e i risultati fossero sufficienti ad affermare il valore.. Lo sarebbero, sì, se non vivessimo disparità quotidiane basate su inconsapevoli condizionamenti che guidano i nostri pensieri razionali, e le nostre scelte, di donne e uomini, tutt* quanti.


I pregiudizi e i condizionamenti di genere sono ancora molto vivi in noi, riguardano noi donne, ma anche gli uomini, che spesso sono frenati ad esprimere altri lati di loro stessi altrettanto presenti, ed é per questa ragione che non c'é nulla, tantomeno il linguaggio, che non sia abbastanza importante, per costruire una realtà davvero equa e meritocratica.


Il primo passo di un cambiamento è l'apertura e il confronto

Desidero che questo sia uno spazio aperto di discussione e condivisione, per questo motivo, a te che stai leggendo chiedo..

Come ti definisci nel tuo lavoro? Usi termini declinati al femminile o preferisci il maschile?

La tua scelta é automatica oppure ponderata? E come ti senti quando scegli l’una o l’altra forma?


Ti invito quindi a riflettere e confrontarti attraverso queste domande:

  1. C’è stato un momento in cui hai esitato a usare il femminile per descrivere il tuo ruolo? Se sì, perché?

  2. Quali pregiudizi o resistenze senti quando pensi all’uso del femminile per definire professioni di prestigio?

  3. Come ti immagini cambierebbe la percezione di te stessa, e quella degli altri su di te, se scegliessi consapevolmente di usare il femminile?


Esprimere chi siamo attraverso il linguaggio è un atto potente. I linguaggio é il nostro modo non solo di descrivere il mondo, ma anche di ridisegnarlo.


Ti leggo, con Gioia.

Lucia

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